Si illuminarono, poi, gli scanni rossi e la costa r s. Lena.Le pietre bianche del rutunno e la tempa r’la fico. Nello stesso momento il frauluso lanciava il suo flautato richiamo d’amore, ritto sul posatoio nei pressi dell’ omonima ancestrale grotta. Fu proprio in quel momento che arrivò tutta affannata e scarmigliata la sorella “zeca” r’zii Peppe. Era rossa in viso perché se l’era fatta di corsa da pretajonda fino a lu Feo. Veniva in cerca d’aiuto perché si era “ingravata la cioccia” e non riuscivano a farla uscire dallo “sdirrupo”. E questo non era tutto ! La Cioccia stava per partorire e si era” zoverlata” proprio perché era pesante ed aveva perso l’equilibrio. Zii Peppo e Zii Angelo erano molto amici, e per questo, in una simile occasione zii Peppe l’aveva mandato a chiamare, anche perché zii Angelo era famoso per la sua forza: infatti, sollevava e trasportava due quintali di grano (uno per lato), e a zii Peppe serviva un valido aiuto per imbracare la cioccia e tirarla fuori senza danno dal fosso in cui era caduta. Zii Angelo non se lo fece dire due volte e prendendo il “carraro pe m’pere a lu iume”, attraversò l’acqua tumultuosa e passando per le scaledde acchianò per la collina e attraversò il chiano dei vaccari, si diresse verso pretajonda. Intanto per zii peppo si era fermato il tempo. Non riusciva a sospirare e un pò imprecava con se stesso contro la mala sorte svinturata , che, in un momento solo, rischiava di sottrare Rosina e la staccaredda che doveva nascere, dopo un lungo anno di attesa da quanto aveva portato la cioccia che ammagliava, a farla zombare dal ciuccio maschio. Stava accuculiato vicino a Rusina e cercava di calmarla con voce suodente e carezze sulle orecchie e in mezzo alla testa . La ciuccia ogni tanto tentava di rialzarsi, ma così facendo non faceva altro che peggiorare la situazione. A un tratto, girando la testa all’indietro e roteando gli occhi, inizio ad emettere un raglio acuto e penetrante. A zi Peppe gli si gelo il sangue nelle vene, al pensiero che la sua Rosina potesse lasciarla per sempre. In un attimo, vi si affollarono alla mente tanti pensieri e tanti ricordi. Erano molti gli anni e le avventure che avevano passato insieme lui e Rosina. il primo pensiero che gli venne in mente fu per la disgrazia che si abbatteva sulla sua famiglia. la ciuccia partecipava a pieno titolo al sostentamento della stessa. Si ricordo subito di come Rosina era stata indispensabile al momento della mietitura del grano, e ,di come ancora prima, al momento di portare il fumiere sul terreno, prima dell’aratura con i buoi “vuoi calavresi” per la semina . Ricordo di come, dopo aver “Sterrato il craparizzo” aveva caricato di “fumiera le cofane ai lati della cioccia”, e come Rosina l’avesse trasportato e scaricato, aprendo lu culo della cofana , sul campo dove poi era cresciuta rigogliosa la carosedda. Pensava alla fatica delle delle donne che avevano “zappuliato” e che avevano “acauzate” le chiantullele con la “zappedda” fatta dai forgiari di Alfano. Le Stesse donne, sua madre le sue sorelle, la moglie, che, cantando canzoni d’amore e di disdegno, “munnavano” il grano, antico metodo manuale di contenimento delle erbe selvatiche. E finalmente le spighe si erano riempite e il grano siera indorato. Ancora una volta si era ripetuto il miracolo del seme che si moltiplicava e dava da mangiare all’uomo. Pensava alla mietitura alle cantate alla cilentana, e rivedeva l’antico movimento sincronizzato che gli uomini facevano attirando a se dalla falce, nell’atto di recidere lo stelo del grano dopo aver infilato le” cannedde” e lo “iritale”. Ed ecco le prime iermete (fasci di grano) legate con gli stessi steli del grano con un movimento particolare. Operazione questa, che si poteva fare solo nelle prime ore del mattino, la sera dopo il tramondo con la luce della luna quanto c’era “l’acquazza” e i lunghi steli della carosedda si piegavano senza spezzarsi. Sei o otto “iermete” legate insieme con lo stesso sitema facevano una “gregna”. Man mano, le gregne si portavano in un posto e tutte messe in piedi, sempre in numero disparo da 15 a 21 e formavano la “vurredda” ( quella da 15 aveva la base sa 5 poi 4, 2, 1 , quella da 21, aveva la base di 6 poi 5, 4, 3, 2, 1). A quel punto appariva Rosina bardata con una sedda Rofranese con i cancieddi laterali. La sedda, era fatta di legno di gelso bianco era scelto gia curvato, in modo naturale scelto per non spezza con un taglio le venature del legno che era molto resistente all’acqua. Per costruire la sedda si utilizzava anche l’acero, l’olmo e l’orniello. Il legno da utilizzare si curava ” sotto il letame o sotto la paglia” per non fargli prendere il vento e quindi spaccarsi. Famosi Mmastari della zona era la famiglia castrllo di Sanza. Mentre le sedde con i cancieddi erano fatti dai Saggiomi di Rofrano. A Laurino c’era Tommaso Mautone che conciava le pelli con la mortella e la corteccia di Quercia da cui ricavava il “tannino”, elemento essenziale del procedimento conciario. Queste pelli erano utilizzate da “Iase r’spizzio” che faceca tutti i “varnimieddi” per ciucci e muli nella sua poteca artigianale sotto la chiesa di S. Maria a la Chiazza nei pressi del teatro. Tagliava tutte le “cegne” : il sotto panza che si attacca da sotto la corda , passa sotto la pancia e si stringe sotto la fibbia, alcuni facevano il sotto panza di lino o con strisce di sacchi di canapa tagliati e cuciti, perché dicevano che le sotta (pelle di bufale conciate) strecavano e piagavano il ventre del ciuccio. Lo “stracuale” che cingeva il deretano del ciuccio sotto la coda rappresentava l’imbracatura di dietro. “Il nnanti pietto” che andava dalla corda avanti al petto ed era stretto al masto con una fibbia. A richiesta confezionava anche i sacconi che si mettevano sotto i masto ed erano imbottiti di lino grezzo o di “picerno” (erba acquatica a stelo lungo). Altri accessori importanti erano le torzze che erano di 2 metri 2 metri e mezzo. Le funi lunghe anche 10 metri servivano ad assicurare i carico al masto; erano fatti di canapa ma qualcuno , molto pazienzioso le faceva di peli di capre. La ciuccia si fermava e aspettava pazientemente di essere caricata di “gregne” che dovevano essere portate all’area di trebiatura. Zii Peppe si rivedeva, nel calore di luglio nel momento in cui scaricava le gregne, dopo aver allentato le torze(fune), e le riponeva ben allineate in terra, a formare l’ausieddo (catasta rettangolare di gregne). E in tanto cominciava a disperarsi sempre di più perché ancora non arrivava nessuno a dargli una mano a far alzare Rosina. Rivedeva Rosina che “carriava” le altre gregne dal campo e si rivedeva lui stesso che faceva il pignolo. Si disponevano le gregne circolarmente con l’accortezza di mettere le spighe di grano verso l’interno e con il susseguirsi di striti si arrivava al colmo dove si incuppulava il Pignone con un cappello di paglia di Jurmano o di stelo di grano più lungo, selezionati dalle donne in virtù di questo utilizzo finale di copertura impermiabile del manufatto. Dopo “appignato” il grano si preparava l’area per la trebiatura. A Pretajonda l’area si faceva con gli escrementi di Vacca diluiti a crema. Veniva delimitata una superfice circolare su cui venivano pennelate vari strati di questa crema che eccandosi e indurendosi formava il suolo di trebiatura. A questo punto si “incapulavano i Vuoi” con il “giogo” di 10 palmi, che permetteva di girare agevolmente a cerchio. In mezzo al giogo si legava la catena che era lunga da un metro a un metro e mezzo e si regolava mano mano per non far mangiare la paglia. All’estremità della catena si attaccava il “triglio” che era la pietra per pesare e che serviva a “scagnolare” la spiga e separare il seme dalle “glumelle” rivestimento esterno dei chicchi di cereali. L’area di trebbiatura si doveva bagnare ogni sera dopo il lavoro. Il suolo di letame veniva “ioscato”, veniva coperto di “iosca” che era la pagliuzza fina che si ricavava dopo la trebbiatura, per evitare che il disseccamento e la screpolatura del piano di lavoro. Dove non c’era l’acqua come petrajonda, l’area di trebbiatura si faceva lastricata di pietra , preferibilmente vive calcaree e non morte (arenare) che sferecugliavano facilmente non resistendo all’abrasione. Ma il luogo designato doveva essere un punto ventoso in quanto questo elemento della natura serviva a separare il grano dalla paglia con un operazione di ventuliamento. Il grano si ventuliava con la forca costruita con legno di fascio (frassino). Si annettava lanciandolo in area con un movimento repentino, sempre contro vento usando una pala quadrata davanti, costruita in legno di faggio. Arrivata la sera se il tempo non prometteva bene e c’era ancora grano da trebbiare, si copriva il tutto con le lenzuola d’aria , tessuto di lino grezzo fermate ai lati dalla “iosca”. C’era chi, non possedendo animali da traino trebbiava a mano con lo “ssruoto”. Con questo attrezzo rudimentale composto da due mazze di legno (cuvernale-corniolo o scandamano-erica) che si articolavano tra di loro tramite una catena , si “marzuculavano” spighe di grano per favorire la separazione dei semi. Intanto il montone di grano cresceva e zii Peppe riusciva a dare una stima approssimativa della quantità del cereale regolandosi con il metodo del manico delle pala, che si infilava al centro del cumulo dorato. Come unità di misura si usava i palmo e “na chiecatura di ierito”, che corrispondeva ad una sarma di grano. Una sarma di grano corrispondeva a 16 stuppedda. Otto stuppedde formavano “il tomolo”. Quattro stuppedde formavano il “menzetto”. Quattro misure formavano “nu stuppieddo”, ogni misura era di circa due chili. Queste erano unità volumetriche, che, corrispondevano a contenitori tipo mastelli costruiti in legno. Lo “stuppieddo alla varra(raso)” era sei chilogrammi; lo stuppieddo a colmo o ad “aceno caruto” era di otto chilogrammi. E quante volte zii Peppe si era fatto e rifatto questi conti; un tomolo (8stuppedde) era circa 50 chili e una salma circa un quintale. Però, quando zii Peppo lo seminava al Feo, questo conto non era pi valido perché, a parità di volume, la carusedda risultava più pesante e da ciò nasceva il detto “grano di preta grano segreto”. Nella contrada di pruno oltre alla carusedda si seminava: “u Cicirieddo” con spiga grande, acino tondo, puca neoredda, paglia alta che non “si iettava” (grano duro); La “Serpendina” con la puca zeca bianca e spiga ondulata (grano duro); “Curdone” con la spiga a quattro facce con puca; “grano Vietro” che era basso, puca corta, con chicco aperto (grano duro); “Marzuto” che si seminava a marzo dopo il disgeloed era basso con puca rossa ( gano duro); “Cappello e cappellino” con puca, alto come cicirieddo, (grano duro); “Grano Bianco” alto come l’orzo con la puca (grano duro); “Maccarunaro” (grano duro) alto, con spiga grande acino allungato; ” Maionica e Saravodda” (grano duro) con puca e acino lungo. Grani Teneri: ” Carussedda rossa – Russia” che aveva i “capiddi” corti; ” Quattrociento” che era come il “grano avietto” primitivo; ” Ramato” con la spiga verde – blu senza puca; “Granuorio” alto come l’orzo con 4-5 acini per spiga; ” Maionica” bianco e peloso capiddi corti alto come carusedda; ” Peteniedda” che era un tipo di carusedda che si coltivava per la tempa r’ lu purco; “Risciola” grano tenero con cui veniva bene anche la pasta. Tornando con il pensiero all’area di trebbiatura, la paglia rimasta veniva caricata ai lati di Rosina in apposite cofane, o se erano disponibili lenziole d’aria venivano portate alla pagliera. Quando la pagliera era piena di “riglia” ( insieme della paglia) ed il grano, dopo essere stato misurato, era riposto nei cascioni di faggio o di castagno con le fronne di noci in mezzo per non farlo attacare dalle farfallina (podulecchie), tutti tiravano un sospiro di sollievo. Per un altro anno si poteva sfamare la famiglia, si poteva fare il pane ei fusiddi…….. Cadeva la tensione ancestrale del momento della raccolta del seme-alimento e tutti si rilassavano compresa Rosina che veniva lasciata libera di pascolava i “restuccio” del grano dopo che le donne avevano “spigolato” il campo. La ciuccia si “Scialava” con tutta quella paglia e qualche chicco di grano che sfuggiva alle mani e agli occhi delle bambine che facevano l’ultima “passata” nel campo. La facevano per bene, perché, i genitori li invogliavano dicendo che più spighe trovavano e più “cuonzi” potevano avere in cambio quando passava il “cunzaro” che portava li “ciarlitieddi e li mummulieddi” contenitori in terra cotta dove si conservava l’acqua che veniva travasata dai varrili di legno che Rusina portava pazientemente ed instancabilmente dalle festole. Ed i bambini, pensate un po , si animavano per questo, perché da piccoli venivano coinvolti a contribuire al sostentamento delle famiglia. Mentre tutti questi pensieri-ricordi formavano un vortice che facevano girare la testa di zii peppo ecco arrivare zii Angelo. Wee Pè, mo la salvamo a Rosina Toia. Ed infatti in un attimo zii Angelo si “imposto” vicino ad uno scanno e con uno sforzo immane riuscì a sollevare da terra la ciuccia, tirandola per la coda e facendo leva con una pannola di legno. Rosina barcollò per un momento ma, poi si rimise saldamente sulle zampe e piano piano si avvio verso la stalla. Quella notte stessa, assistita da zii Peppe con l’intera famiglia e da zii Angelo la ciuccia “sgravò”, dando alla luce una bella “staccaredda”: Ngiulina, la futura nonna di Caterina. Nota (4) Peppe Tosone stava alla carpineta sotto gli aranci dietro l’attuale comune di Rofrano. Mulini di Rofrano: Localitaà Arenazza nel canalone del Carcillo, prendendo la strada per Alfano. Mulino ad acqua sotto San Menale dei Cafaso-Puglia; Mulino Commite e Milone che stava al Piano A ponte faraone Mulino di Giuseppe di Fanciullo In epoca successiva mulini elettrici di Govanni u mulinaro dietro il Burio Mulino Puglia alla Pastena dove adesso c’è il furgiaro. A pretajonda dal 50 al 57 mulino a cascata gestito dai Rofranesi Gaetano Puglia, Giovanni Valienzi e Giuseppe di Fanciulle Mulino al Feo , sotto la Festola con rotone in ferro; costruito da Biase, la guardia di Angelara che aveva messo altri mulini alla Quarantana di Cannalonga. Tutti gli ingranaggi erano di castagna e quindi sono marciti mentre la ruota fu smontata per fare zappe e altri utensili; le pietre da macina si possono ancora vedere.